Il caso Assange: la libertà di stampa è davvero senza limiti?
Per i suoi sostenitori è un valoroso protettore della verità, per i suoi detrattori un megalomane che ha messo in pericolo vite umane rendendo di dominio pubblico un’enorme quantità d’informazioni sensibili. Chi è veramente Julian Assange? E la libertà di stampa è davvero illimitata come dovrebbe essere? O vi è un confine che non è permesso superare?
Julian Assange e WikiLeaks: cronaca di una storia controversa.
Julian Paul Assange è un giornalista, programmatore e attivista australiano, cofondatore e caporedattore dell’organizzazione divulgativa WikiLeaks1. Si tratta, in sostanza, di un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro, istituita nel 2006 in Islanda, con l’obiettivo di diffondere documenti governativi d’interesse pubblico protetti da segreto di stato. I temi principali di questi documenti sono tra i più svariati: massacri di civili, torture e scandali finanziari. Tramite l’utilizzo di un sistema di cifratura altamente sicuro, l’organizzazione riesce a garantire l’anonimato ai propri informatori e ai cosiddetti whistleblowers (la cui traduzione letterale è “segnalatore di illeciti”) evitando, dunque, che essi siano perseguiti per la diffusione di documenti riservati.
“Una gigantesca biblioteca dei documenti più perseguitati al mondo”. - è questa la definizione fornita da Assange riguardo WikiLeaks. Definizione che, più di tutte, chiarisce, e soprattutto autogiustifica2, l’intento del suo fondatore. L’obiettivo dichiarato di Assange è, infatti, sempre stato quello di promuovere la trasparenza e la libertà d’informazione, mettendo a disposizione del pubblico documenti che sarebbero altrimenti rimasti del tutto sconosciuti. Il sito fece la sua prima apparizione su Internet nel dicembre 2006; tuttavia, la sua grande fortuna ebbe inizio nel 2007, quando entrò a far parte dell’Organizzazione un attivista che iniziò ad utilizzare il programma di anonimato Tor, un software libero che permette una navigazione anonima sul Web, rendendo molto più complesso tracciare o intercettare l’attività che l’utente compie su Internet. Fu grazie all’utilizzo di questo strumento che WikiLeaks riuscì a intercettare milioni di conversazioni all’insaputa degli interessati.
Il potere delle rivelazioni.
Nella seconda metà del 2007, WikiLeaks pubblica una cospicua documentazione avente come oggetto la gestione del campo di prigionia di Guantánamo, una struttura detentiva statunitense di massima sicurezza interna alla base navale di Guantánamo, sull’isola di Cuba. Il campo di prigionia, aperto nel gennaio 2002 dal governo degli Stati Uniti d’America, allora presieduto dal repubblicano George W. Bush, era finalizzato alla detenzione di prigionieri catturati in Afghanistan3 e in Pakistan ritenuti collegati ad attività terroristiche. Già nel 2004, l’ICRC (ossia, il Comitato internazionale della Croce Rossa), all’interno di un articolo pubblicato sul “The New York Times”, denunciava le sistematiche violazioni commesse nei confronti dei detenuti (spesso innocenti): detenzioni a tempo indefinito senza previo processo, torture fisiche e psicologiche, waterboarding (ossia, la pratica di annegamento simulato) e privazione del sonno e del cibo erano soltanto alcuni degli scioccanti trattamenti che venivano riservati ai detenuti. Nell’ambito di questa storia, WikiLeaks decise di pubblicare, contro la volontà del Pentagono, un documento contenente le direttive del campo di prigionia, direttive volte sia ad occultare le reiterate torture che avvenivano all’interno del campo, sia ad esaltare la populistica lotta al terrore propagandata da Bush.
Quello del campo di prigionia di Guantanámo4 è uno dei casi più significativi venuti alla conoscenza del pubblico grazie a WikiLeaks. Tuttavia, se da un lato contribuì a scandalizzare l’opinione pubblica, dall’altro provocò una maggiore attenzione da parte del Pentagono, e più in particolare della sezione di controspionaggio dell’Intelligence americana, nei confronti dell’organizzazione. Proprio la CIA, in un documento di circa trentadue pagine, definì WikiLeaks una “minaccia per la stabilità nazionale” e il suo fondatore un “nemico pubblico”.
Tre anni dopo, il 5 aprile del 2010, viene diffuso un video di diciassette minuti che passerà alla storia con il nome di “Collateral Murder”. Nel macabro video viene documentato l’assassinio di almeno dodici civili iracheni (sembra che il numero esatto di civili uccisi ammonti in realtà a diciotto) avvenuto durante un attacco messo in atto da due elicotteri statunitensi presso Baghdad. Il governo americano cercò di difendersi dalle accuse affermando che si trattasse di milizie di terroristi e che l’attacco fosse avvenuto nell’ambito di un combattimento. Tuttavia, il video pubblicato da WikiLeaks contribuì a rendere poco credibile la tesi sostenuta dal Pentagono dal momento in cui riprendeva le parti cruciali dell’esecuzione, comprese le registrazioni vocali dei militari e le comunicazioni dei loro superiori.
Nel maggio dello stesso anno il soldato dell’esercito americano Chelsea Manning5, analista di intelligence durante le operazioni militari in Iraq, viene arrestata con l’accusa di aver pubblicato il video e altri centinaia di migliaia di documenti riservati, alcuni dei quali contenenti le relazioni degli Stati Uniti d’America con il Pakistan nella guerra in Afghanistan del 2001. Nella versione resa pubblica dal Pentagono, gli Stati Uniti inviavano alla popolazione pakistana aiuti umanitari sotto forma di cibo e denaro. Tuttavia, la realtà che si celava dietro tale gesto era ben diversa e metteva in luce come gli aiuti fossero di fatto fondi da convertire in aerei militari e armi con cui supportare l’offensiva americana in Afghanistan. In tal modo, se uno di quegli aerei o di quelle armi avesse contribuito ad abbattere un civile, la colpa sarebbe stata fatta ricadere interamente sui pakistani.
Dopo pochi giorni dalla pubblicazione del video, Manning viene arrestata e internata nel carcere militare di Quantico, in Virginia. Ben presto, gli Stati Uniti vengono formalmente accusati di trattamento crudele, disumano e degradante per la forma di detenzione inflitta a Manning, la quale viene tenuta in isolamento per circa 23 ore al giorno, dorme con le luci accese ed è controllata ogni cinque minuti. L’unica forma di esercizio che le è permessa consiste nel camminare in circolo in una stanza per un’ora al giorno, e durante le rare occasioni in cui può ricevere visite viene incatenata. Nell’agosto 2013, Manning è condannata a 35 anni di reclusione per 20 dei 22 capi d’accusa di cui è imputata dalla procura militare: l’unica accusa da cui viene assolta è quella di convivenza con il nemico (che prevede anche la pena di morte). Durante la sua detenzione, Manning6 ha dovuto affrontare diverse difficoltà, tra cui quella legata alla sua identità di genere. Nel 2013, infatti, ha annunciato di essere transgender, chiedendo, al contempo, di essere chiamata Chelsea (e non più Bradley) e di essere sottoposta a terapia ormonale. Tuttavia, il governo degli Stati Uniti ha inizialmente negato questi diritti.
Dopo aver scontato 7 dei 35 anni di reclusione stabiliti dalla sentenza, nel gennaio 2017, il Presidente uscente degli Stati Uniti Barack Obama7 ha commutato la condanna di Manning, riducendo la sua pena a sette anni. Nel maggio 2017 finalmente uscirà di prigione, non senza gravi ripercussioni mentali.
Il 25 luglio 2010, WikiLeaks pubblica un report contenente circa 91 mila documenti militari segreti relativi alla guerra in Afghanistan. I documenti coprono un periodo che va dal gennaio 2004 al dicembre 2009 e mettono in luce una versione della guerra assai differente rispetto a quella riportata dai media tradizionali. La divulgazione dei documenti in questione fornisce, per la prima volta, una prospettiva senza precedenti sulla guerra in Afghanistan, offrendo un resoconto dettagliato del conflitto dalla prospettiva militare sul campo. In particolare, il report rivela informazioni sull’uccisione di civili da parte di truppe statunitensi e britanniche (si tratta di vittime di guerra mai considerate, secondo il Guardian8 sono circa 200), nonché l’azione di sostegno di Pakistan e Iran ai talebani. La pubblicazione dei cosiddetti “Afghanistan War Logs” ha suscitato notevoli controversie nell’opinione pubblica: i critici hanno sostenuto che la loro diffusione mettesse a rischio la vita delle forze di coalizione e dei civili afghani fornendo informazioni preziose ai gruppi insorti. La divulgazione ha contribuito ad alimentare un crescente scetticismo nei confronti della missione in Afghanistan, con un numero sempre maggiore di persone che iniziano a mettere in discussione l’efficacia e la sostenibilità dell’intervento militare, e richiedono, al contempo, una maggiore trasparenza e neutralità dei media.
Storia di una persecuzione.
Nel novembre 2010 il tribunale di Stoccolma rilascia un mandato di arresto in contumacia nei confronti di Assange con l’accusa di stupro, molestie sessuali e coercizione illegale. Assange viene incolpato di aver avuto rapporti sessuali non protetti, seppur consenzienti, con due donne, e di essersi successivamente rifiutato di sottoporsi ad un controllo medico sulle malattie sessualmente trasmissibili, condotta considerata criminosa dalla legge svedese. Tuttavia, il fondatore di WikiLeaks nega l’accusa sostenendo che essa fosse soltanto un pretesto per estradarlo dalla Svezia agli Stati Uniti a causa della pubblicazione dei documenti segreti. Nonostante le sue costanti smentite, le accuse contribuirono a creare una visione distorta della figura di Assange9, il quale venne addirittura definito un “criminale da neutralizzare con l’intervento di forze speciali”. Oltre a ciò, tutti i principali circuiti di carta di credito, senza la presenza di alcun provvedimento giudiziario, decisero contemporaneamente di attuare una sorta di embargo finanziario nei confronti di WikiLeaks in modo tale da stremarla economicamente.
Nonostante le accuse, nel novembre 2010, Assange torna a pubblicare. Lo fa mediante un’ingente rassegna di documenti riservati (più di 250 mila) riguardanti informazioni confidenziali inviate da 274 ambasciate americane in tutto il mondo al dipartimento di Stato degli Stati Uniti a Washington. La vicenda, passata alla storia come “Cablegate”, ha rivelato scandali e pressioni governative e politiche. Leggendo i documenti diffusi da WikiLeaks si notano giudizi e opinioni su praticamente qualsiasi tema dell’agenda politica internazionale, su governi e capi di stato, sui loro rapporti e sulle loro alleanze.
“Incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno”: questo il giudizio sull’ex Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi che emerge dai documenti pubblicati. Non solo, oltre alla scarsa fiducia nutrita nei suoi confronti, l’ex premier italiano viene visto con aperto sospetto per i suoi rapporti con Vladimir Putin, di cui viene definito il “portavoce in Europa”.
L’Italia descritta nei 4189 cablo che la riguardano è niente meno che una “democrazia dal guinzaglio molto corto”, dove i politici subiscono grandi pressioni, specialmente da parte degli Stati Uniti. Alcuni dei documenti più contraddittori riguardano soprattutto la guerra in Iraq. Nel maggio 2003, l’ambasciatore americano a Roma, Mel Sembler, sigla un cablo in cui espone il contributo che l’Italia, allora guidata dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi e dal primo ministro Silvio Berlusconi, aveva dato all’invasione dell’Iraq. L'Italia, nonostante gran parte dell’opinione pubblica fosse contraria, ruppe l'isolamento in cui si trovava l’America di Bush, garantendole il suo appoggio. Nella sua relazione, Sembler10 racconta come abbia ottenuto dall’Italia tutto ciò che gli Stati Uniti hanno chiesto, tra cui forniture belliche, aeroplani, porti e infrastrutture dei trasporti. Il rischio che il Presidente Ciampi denunciasse la collaborazione dell’Italia come una violazione della Costituzione era stato scongiurato dall’azione del governo Berlusconi, che, come riferito all’interno dell’analisi, “ha portato un paese completamente contrario alla guerra il più vicino possibile, politicamente, allo stato di belligeranza. Se al potere ci fosse stata un’altra coalizione, in particolare una guidata dal centrosinistra, il percorso sarebbe stato più complesso”. A scandalizzare l’opinione pubblica italiana furono anche altre rivelazioni circa le soluzioni adottate dalle nostre istituzioni per impedire ai manifestanti pacifisti di fermare i treni e i veicoli che trasportavano l’equipaggiamento militare. Apparentemente tutto si era svolto nel rispetto della democrazia, ma i cablo rivelano i veri metodi applicati dalle nostre istituzioni, che prevedevano una pesante sorveglianza delle comunicazioni dei manifestanti e lo schieramento di centinaia di forze dell’ordine in punti chiave lungo le tratte ferroviarie.
Quanto alla guerra in Afghanistan, invece, i cablo rivelano una possibile attuazione di pratiche corruttive da parte dell’Italia: “i servizi segreti italiani pagavano i guerriglieri nella regione di Kabul affinché non attaccassero le truppe italiane” - riportano i diplomatici americani nel febbraio 2009. Berlusconi11 smentì varie volte queste accuse. I documenti sull’Italia, oltre a rivelare le pressioni subite per la guerra in Iraq e in Afghanistan, lasciano emergere come il nostro Paese fosse ormai divenuto un posto cruciale per il complesso militare-industriale americano, o meglio ancora “la piattaforma di lancio delle guerre americane”, come lo definì il “Guardian” nel 2013. Durissime anche le accuse nei confronti della Russia, incriminata di utilizzare i boss della mafia per effettuare varie operazioni; la relazione, secondo Assange, è così stretta che il Paese è divenuto “virtualmente uno Stato della mafia”. Dai documenti emerge anche il grande nervosismo dei Paesi arabi, come Arabia Saudita, Giordania e Bahrein, nei confronti dell’Iran, con tanto di ripetute richieste agli Stati Uniti di intervenire militarmente nel Paese per fermare il programma nucleare e distruggerne le centrali. Egitto e Emirati Arabi Uniti hanno, dal canto loro, definito l’Iran “maligno” e una minaccia per la loro esistenza.
Quotidiani del calibro di “The New York Times” - tra i primi a rendere nota la vicenda - decidono di adottare un atteggiamento alquanto prudente nel trattare la questione. La prestigiosa testata, infatti, ammette di pubblicare il materiale diffuso previa consultazione con il Dipartimento di Stato statunitense e omettendo passaggi delicati, la cui diffusione potrebbe “compromettere gli sforzi dell’intelligence americana”.
Nel novembre 2010 l’Interpol recepisce il mandato di arresto nei confronti di Assange, il quale, nel dicembre dello stesso anno, si presenta spontaneamente negli uffici di Scotland Yard, dove viene arrestato in seguito al mandato di cattura europeo. Nel frattempo, la Svezia presenta una richiesta di estradizione alle autorità britanniche: secondo alcune fonti, tale richiesta sarebbe finalizzata a consegnarlo agli Stati Uniti dove lo attende un processo per spionaggio (l’accusa per spionaggio, negli USA, può costare l’ergastolo e anche la pena di morte) e dove rischia di dover scontare una reclusione di 175 anni. Nel novembre 2011 l’Alta corte di Londra dà il via libera all’estradizione richiesta dalla Svezia. Tuttavia, la Corte Suprema britannica, nel giugno 2012, ribalta la sentenza di estradizione e Assange sceglie di recarsi presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, chiedendo asilo politico in quanto perseguitato. Da allora Assange rimane nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per quasi sette anni. La scelta dell’ambasciata ecuadoriana non era casuale: alla base di tale richiesta, infatti, vi era il fatto che il governo socialista presieduto da Rafael Correa si trovava in ostilità aperte con gli Stati Uniti, ostilità dovute alle preoccupazioni dell’allora Capo di Stato ecuadoriano nei confronti di alcune attività illegali statunitensi in Ecuador. Proprio in questo periodo, Assange comincia ad avere problemi di salute dovuti principalmente al logorio psicofisico estremo.
Nel luglio 2012 l’ambasciata ecuadoriana a Londra scrive una comunicazione rivolta al ministero degli esteri svedese che recita quanto segue: “Assange riporta alla procura svedese la sua disponibilità ad essere interrogato negli edifici dell’ambasciata ecuadoriana a Londra”. Tuttavia, il silenzio del ministero svedese contribuisce ad invalidare il “principio di non respingimento” (“non refoulement”), principio fondamentale del diritto internazionale che vieta al paese ricevente di rimandare i richiedenti asilo in un paese in cui sarebbero in probabile pericolo di essere perseguitati per “razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica”. Nell’agosto 2012 il governo del socialista Rafael Correa concede lo status di rifugiato politico ad Assange, mentre questi si trova ancora nell’ambasciata, poiché il Regno Unito minacciava di arrestarlo con un’incursione, al fine di consegnarlo alla Svezia, nonostante ciò rappresentasse una grave violazione del diritto internazionale all’immunità delle sedi diplomatiche.
Ad un passo dall’estradizione.
Nel maggio 2017 sale al potere in Ecuador il filostatunitense Lenin Moreno: da qui in poi le cose sono destinate a cambiare; prima tra tutte il trattamento riservato ad Assange all’interno dell’ambasciata. Durante la mattinata dell’11 aprile 2019, infatti, Assange subisce un’inaspettata revoca dell’asilo politico: l’Ecuador acconsente ad agenti di polizia metropolitana di Londra di entrare in Ambasciata e prelevare Assange contro la sua volontà, senza rispettare il fatto che egli fosse in possesso della cittadinanza di quello Stato (che gli era stata concessa nel dicembre 2017). A trasmettere il video dell'arresto di un Assange ormai irriconoscibile fu Ruptly, un media russo di proprietà della testata giornalistica vicina al Cremlino.
Ad attendere Assange c’è il carcere di massima sicurezza di Belmarsh (detto “la Guantanámo britannica”), uno dei più duri del Regno Unito, in cui vengono rinchiusi criminali tra i più pericolosi, assassini e terroristi. Le condizioni di Assange, tutt’ora confinato nel carcere di Belmarsh, sono estremamente preoccupanti; il ricercatore britannico Michael Kopelman, docente di neuropsichiatria, dopo aver visitato Assange in carcere, definisce così le sue condizioni fisiche e psichiatriche: “perdita del sonno e di peso, incapacità di concentrarsi, uno stato di agitazione acuta per cui camminava nella sua cella fino allo sfinimento, prendendo a pugni la testa e sbattendola contro il muro della cella. Ha pensato al suicidio centinaia di volte e ha un desiderio costante di atti di autolesionismo. Si è fatto dei tagli alla coscia e all’addome per distrarsi dal suo senso di isolamento”.
Nel gennaio 2021 il tribunale distrettuale britannico nega la richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti a causa delle condizioni mentali di Assange: considerata la sua depressione clinica, infatti, il regime di isolamento al quale sarebbe sottoposto negli Usa potrebbe portarlo al suicidio. Ad aprile 2022, l’Alta corte di Londra ribalta la sentenza di primo grado ed emette l’ordine formale di estradizione negli Stati Uniti. Nel frattempo, la ministra degli interni inglese, Priti Patel, ha dato il via libera finale al trasferimento dell’attivista australiano.
Che fosse sua intenzione oppure no, ormai Julian Assange non è più soltanto una persona, ma un simbolo, che porta ad interrogarci sulle relazioni tra libertà, privacy, censura, diritto-dovere all’informazione e responsabilità sociale. Il suo caso rappresenta una minaccia alla libertà di espressione, e, di conseguenza, alla nostra idea di democrazia. L’estradizione di Assange non sembra un evento così remoto. Quella che si sta delineando è la sconfitta di chi ha sempre cercato la verità e, ciononostante, è stato spesso individuato come un colpevole, colui che ha messo in pericolo vite umane, una persona a cui è logico togliere la libertà di espressione. A tal proposito, è bene ricordare una delle più celebri frasi pronunciate dall’attivista per i diritti umani Malcom X: “se non state attenti i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono”.
Una panoramica della libertà di stampa nel mondo.
Il 3 maggio di ogni anno si celebra la giornata internazionale della libertà di stampa, diritto inviolabile che dovrebbe essere garantito da ogni società democratica e informata. Per l’occasione, l’ONG Reporter Senza Frontiere pubblica annualmente il World Press Freedom Index, una classifica che valuta il grado di libertà che hanno i giornalisti e le organizzazioni di informazioni in 180 Paesi. I criteri di valutazione utilizzati nel questionario sono molteplici: il pluralismo, l’indipendenza e l’ambiente dei media, l’autocensura, il quadro legislativo, la trasparenza e la qualità delle infrastrutture per la produzione di notizie e informazioni. I dati qualitativi sono combinati con quelli quantitativi sugli abusi e gli atti di violenza subiti dai giornalisti durante il periodo di riferimento.
La classifica pubblicata nel 2023 mostra una situazione “Molto grave” in 31 Paesi (rispetto ai 21 di due anni fa), “Difficile” in 42, “Problematica” in 55 e “Buona o soddisfacente” nei restanti 52. Sul podio dei Paesi più virtuosi, Norvegia (che occupa la testa della classifica da ormai sette anni), l’Irlanda e infine la Danimarca.
Ciò che emerge dalla graduatoria è che, nonostante i progressi compiuti in molte nazioni, la situazione della libertà di stampa nel mondo è alquanto preoccupante. In base ai dati dell’ UNESCO Observatory of Killed Journalists, tra l’inizio del 2016 e la fine del 2020, sono stati uccisi circa 400 giornalisti in tutto il mondo. Si tratta di una diminuzione di quasi il 20% rispetto agli anni 2011-2015, durante i quali l’Osservatorio aveva registrato 491 omicidi. Questa tendenza al ribasso, seppur positiva, non è del tutto rassicurante: ad essere aumentate, infatti, sono le detenzioni, le querele intimidatorie e moltissime altre forme di violenza (incluse quelle online) nei confronti dei giornalisti volte a tacitare le voci dissenzienti e ad instillare il timore di indagare su questioni di interesse pubblico. Oltre a ciò, l’impunità per i crimini contro i giornalisti rimane diffusa in modo allarmante: l'87% delle uccisioni dal 2006 rimane irrisolto. Le cause sono sempre le stesse: indagini ancora in corso, casi senza risoluzione o mancanza di informazioni sulla procedura giudiziaria da parte dello Stato coinvolto.
Il contesto italiano.
Nel 2023 l’Italia ha recuperato posizioni nella classifica internazionale sulla libertà di stampa stilata da Reporter Senza Frontiere, passando dal 58° posto del 2022 al 41° di quest’anno. Nonostante ciò, quello che emerge dal report annuale è che “la libertà di stampa in Italia continua ad essere minacciata dalla criminalità organizzata, in particolare nel sud del Paese, nonché da vari gruppi estremisti violenti”. Il report valuta il panorama multimediale italiano sviluppato e connotato dalla presenza di numerosi media che garantiscono una diversità di opinioni. Dunque, la minaccia data dalla concentrazione dei media – che è presente in molte nazioni - in Italia non sussiste: si tratta questo di un riconoscimento assai importante e significativo che contribuisce ad accrescere il dibattito pubblico e un’informazione imparziale.
Ciò che contribuisce ad allontanare il nostro Paese dalla cima della classifica è principalmente la situazione legata alla legislazione. All’interno del report emerge che “un certo grado di paralisi legislativa sta frenando l’adozione di vari progetti di legge che sono stati proposti per preservare e persino migliorare la libertà giornalistica. La diffamazione deve ancora essere depenalizzata”. Infine, il report mette in evidenza la precarietà del sistema, evidenziando come i media, a causa della crisi economica, siano sempre più dipendenti dalle entrate pubblicitarie e dai sussidi statali, mentre la stampa sta affrontando un graduale declino delle vendite. Il risultato di tutto ciò si traduce in una crescente precarietà che minaccia pericolosamente il giornalismo italiano, il suo dinamismo e la sua autonomia.
A prescindere dai dati sopracitati, quello che realmente conta è che il giornalismo in Italia continua ad essere una professione pericolosa. Il binomio libertà di informazione - pericolosità del lavoro del giornalista nel nostro Paese ha assunto una dimensione alquanto preoccupante: sono 721 le minacce contro giornalisti e blogger nel 2022 (di cui oltre il 70% con minacce violente). 22 giornalisti vivono attualmente sottoscorta in Italia e altrettanti sono stati colpiti da querele temerarie. Anche se meno del 10% di queste querele intimidatorie hanno avuto un seguito giudiziario, ossia con l’accertamento della responsabilità del cronista, la querela contribuisce a zittire il reporter ostinato nella ricerca della verità.
La libertà di stampa è in pericolo?
Quella di Julian Assange è, prima di tutto, una vicenda umana, una storia di diritti negati, o, meglio ancora, di giustizia negata. È una storia legata al sempre più crescente potere della tecnologia e alla sua incapacità di trovare un bilanciamento con uno dei pilastri fondamentali di uno Stato liberale, ossia la libertà di stampa.
Seppur basandosi su leggi esistenti, il processo contro Assange viene sostenuto da molti, non tanto perché essi ritengono imprescindibile il rispetto di tali leggi (peraltro in parte risalenti alla Prima Guerra Mondiale e poco utilizzate), quanto piuttosto perché non tollerano il suo lavoro di diffusione e ciò che di scomodo ha rivelato; tutto quasi a voler ricordare che se si superano certi limiti, indipendentemente dalle ragioni per cui lo si fa, se ne dovranno pagare le conseguenze. I capi d’accusa riguardano i presupposti basilari del lavoro di inchiesta, ovvero protezione delle fonti, possesso di informazioni classificate e divulgazione di queste ultime - creando un inquietante precedente.
La privacy, la libertà di espressione e il diritto di accesso alle informazioni sono principi che non possono essere sacrificati a causa di preoccupazioni sulla sicurezza: gli Stati hanno il difficile compito di cercare di trovare soluzioni che salvaguardino entrambi gli interessi. È fondamentale trovare un equilibrio che permetta ai media di svolgere il loro ruolo di informatori critici, ma che, allo stesso tempo, protegga gli interessi e la sicurezza dello Stato.
La vicenda di Assange ha posto il giornalismo di fronte a molte questioni, relative soprattutto al suo ruolo di intermediazione e al suo rapporto con le istituzioni del potere. Assange è il caso emblematico di una sempre maggiore intolleranza nei confronti dell’informazione indipendente e non allineata, anche in Occidente: quello che sta subendo non riguarda solo lui, ma tutti noi, poiché è a rischio il nostro diritto di conoscere, in quanto cittadini, cosa fanno i Governi che ci rappresentano.
L’accusa rivolta ad Assange è quella di aver utilizzato la tecnologia per facilitare lo sfondamento del potere. La speranza, invece, è che la tecnologia sia democratica e contribuisca ad aiutare le fonti a bucare le opacità presenti nella società, non invece gli Stati a punire chi le diffonde. Perché nel silenzio stampa di un giornalismo che deve chiedere il permesso e si limita a parlare per sentito dire, la libertà lentamente muore.
Gabriele Biagini